Per accedere al suo laboratorio, si percorre una strada stretta e caratteristica, molto nota nel centro storico di Napoli. Nelle giornate in cui non c’è molta folla, si possono sentire persino i propri passi far rumore in quella assorta traversa secondaria, che contrasta con la chiassosità tipica del Decumano, e così ancora percepire qualcosa di misterioso e magico che avvolge questo luogo. Si trova, infatti, qui una della Cappelle più misteriose della storia della Napoli del 1700: Cappella San Severo, del Principe Raimondo Di Sangro, alchimista diabolico, di cui molti ebbero rispetto e altri paura: fatto sta che di quell’ uomo, tanto brillante quanto a volte spaventoso, si narrarono leggende che si perpetrarono dai vicoli del centro di Napoli fino alla parte più alta della città. Girando l’angolo di questa stradina, proprio dopo pochi passi, sorge un piccolo atelier che di assorto, magico, inconsueto, leggendario e misterioso racchiude tutto in sé: un vano sottoposto di accesso che sembra si inoltri nelle viscere della città. Quelle viscere che a Napoli sono ancora popolate di storie di fantasmi, di storie di munacielli, di voci e testimonianze vive, provenienti dai racconti dei fuggitivi dei bombardamenti, che si rifugiavano lì durante la Seconda Guerra Mondiale. Quel ventre della città che ospita ancora ricordi lontani, ma sempre rivissuti, attraverso narrazioni ripetute, che restano così sospese ed eterne nel tempo e nello spazio che l’immaginazione offre.
In questo magica stanza sottoposta si trova un mondo tutto popolato di oggetti simbolici, perché semplici nei materiali, ma nello stesso tempo carichi nei significati e nelle rappresentazioni: opere in cartapesta e in ferro si affollano ovunque; ciondolano dal tetto, come sospese proprio in una di quelle narrazioni delle viscere di Napoli, che ancora vogliono vivere ed essere comprese e raccontate. Il racconto, infatti, è una seconda possibilità di vita e qui queste opere introducono in un mondo parallelo, spesso onirico, di racconti: volti di donne senza sguardo, oppure donne esili lavorate con il fili di ferro, sembrano rendere la scena unica e immobile. Il tempo si ferma …
Si ferma per farci cogliere e accogliere significati profondi nascosti in quelle lavorazioni. Opere come sospensioni immaginarie, spesso sognanti, verso idee lontane quanto vicine, verso mondi infiniti, tanto indeterminati quanto intimi, perché custoditi nel nostro immaginario, anche infantile: scale che indicano un cammino sacro, non perché portino ad un luogo trascendente, ma perché il sacro appartiene già all’atto del camminare in sé. In questo mondo ci introduce Teresa Cervo con le sue opere.
L’artista scopre nella carta un’enorme possibilità espressiva: la carta non ha un proprio valore intrinseco, è semplicemente carta di recupero, che prende forma nobilmente proprio attraverso un vasto immaginario, che poi la animerà, fino ad assumere figure molto potenti, fortemente simboliche, proprio perché dotate di una propria idealità superiore, individuale quanto collettiva. “La carta e il fil di ferro, in tutti questi anni, sono proprio i materiali da cui ho ricavato le soddisfazioni maggiori … non hanno valore riconosciuto socialmente … e per questo mi piace dare forme nobili a ciò che verrebbe invece rifiutato”, così Teresa Cervo spiega le sue scelte artistiche nel lavorare la cartapesta, che ha dei tempi di lavorazione molto lunga e per questo mentre “la lavori ti offre il tempo di pensare”.
Le sue parole esprimono un mondo delicato e si mescolano con un sottofondo di musica classica, che fa da cornice emozionale al suo laboratorio, dove ogni espressione introduce in un mondo sospeso, fluttuante, nel quale non si sente il bisogno di gridare, ma di sussurrare verità antiche e profonde: l’ascolto, in queste opere, pone le sue radici più nascoste .
Donne in fil di ferro che offrono un’antica quanto magica verità: sono sottili e semplici, quanto resistenti e flessibili. Malleabili e forgiabili, ma essenzialmente indistruttibili. Donne dai volti sospesi negli sguardi, senza occhi, perché il tempo del guardare ha ceduto il passo al tempo dell’ascolto, che è più prezioso, proprio perché non ha tempo: chi si pone infatti in ascolto compie un atto che di per sé è aperto, accogliente e fertile. E se nell’Arte Classica o ancora in quella Rinascimentale la fertilità veniva rappresentata dagli armoniosi o colmi corpi delle donne, qui invece, nelle opere di Teresa Cervo, la donna viene spesso rappresentata nella sua filiformità, che per assurdo, è eccezionalmente resistente; o anche nella sua cecità apparente, perché la donna rappresentata non pone al centro dell’attenzione sé stessa come immagine che pretende e fagocita sguardi: nella sua fertilità di ascolto la donna è invece senza sguardo. Così il tempo trascorso in un “batter d’occhio”si ferma in quel preziosissimo spazio magico dell’ascoltare senza guardare, che queste donne rappresentano, come varco di accesso al tempo sospeso. E se queste donne poi hanno occhi, il loro sguardo è come incantato, sognante, gettato sull’interiorità, mentre sembrano salire con l’immaginazione e con le loro gambe lunghissime, leggere e allo stesso tempo forti, interminabili scale. “Noi guardiamo troppo in questa epoca: si guarda, si fotografa, non si vive …. c’è un eccesso di dati di cui non prendiamo coscienza … le mie donne non guardano, ascoltano o guardano altrove”. Quell’altrove che permette loro di carpire, comprendere, cogliere la vita, che regala loro una dimensione coscienziale privilegiata, ma anche spesso scomoda, perché diversa. Una scultura di donna in cartapesta è proprio “Altrove”: i suoi piedi enormi la ancorano al suolo tanto che, per lo sforzo di sollevarsi per tendere appunto altrove, la sua figura si assottiglia fino all’inverosimile, senza tuttavia lasciare mai il suolo: “non sappiamo poi se ce la farà!”, spiega l’artista, lasciando con il fiato sospeso in questa narrazione, a cui ognuno può poi dare un senso diverso.
Donne dai capelli raccolti, ma poi arruffati, che sembrano essere passate per una tormenta ed aver resistito magicamente ad essa, forse grazie a quelle gambe lunghissime, incredibili e inverosimili, dall’equilibrio che sembra a volte instabile e penzolante. Alcune con le loro gonne larghe, come quelle delle bambine, cantano, ballano, vanno sull’altalena: e così Teresa Cervo rappresenta in quelle azioni delle piccole donne perenni. Come in quei sogni ricorrenti, che proprio perché ricorrenti assumono significati pregnanti, dove si raffigurano lontani e spesso perduti mondi infantili, azioni immobilizzate in eterni ritorni: immagini, come figure per sempre conservate, di giornate dove un vento fresco smuove i capelli e le gonne di piccole bambine, che sembrano ballerine. C’è uno spazio perenne che vive in ognuno, uno spazio in cui i ricordi restano immobili e forgiano la nostra esistenza: quell’infanzia che, se nella sua fragilità trova certezze, ci sorregge poi nella vita adulta, riproponendo proprio quelle rappresentazioni di vita fanciullesca, che rivive spesso silenziosa negli affollati spazi della memoria e dirompe poi potentemente nei sogni. Proprio questi spazi sacri, perché non divorati dal tempo, trovano realizzazione nelle opere di questa artista napoletana, Teresa Cervo. Delicata, dall’animo riservato, come se dentro di sé serbasse un messaggio semplice quanto incorruttibile, che ci svela poi nelle sue opere: la donna, colta nel suo animo appassionato e gentile, che accoglie, ascolta, canta, balla, offre sé stessa con inesauribile forza e semplice bellezza. Queste realizzazioni artistiche raccontano storie di essenze, storie d’amore, antiche quanto moderne, semplici quanto complesse, sostanziali e nello stesso tempo sognanti. Queste opere leggere, delicate, apparentemente fragili ed esili, di una tenerezza disarmante in quei materiali così semplici, come la cartapesta e il ferro, offrono invece uno sguardo su una realtà di donna come di un essere fuori dal tempo: incrollabile, ferma e tenace nel suo salire.
Donne spesso anche prigioniere delle proprie illusioni, vissute come favole immaginarie, tramandate o spesso costruite dalle volontà altrui. “L’opera della principessa imprigionata nella favola”, come spiega la stessa artista, “ci insegna che di favole si può anche morire”. Le favole ingabbiano spesso le donne e invece di nutrirle, le intricano, le legano e le impigliano. I capelli poi di queste donne rappresentano propaggini verso l’alto, come pensieri ed emozioni affollate che vorrebbero uscire ed esprimersi e che vorrebbero propagarsi nella realtà esterna; ma, poi, spesso restano intrappolate nei rami del bosco oscuro delle proprie illusioni.
Uno dei temi delle ultimi produzioni è quello dei cammini: grovigli di fil di ferro alla base di scale su cui minuscole ed esili donne si arrampicano.”Grovigli come intrichi sociali nei quali le donne spesso restano avviluppate e cercano di sollevarsi”. Le scale non hanno un termine, poiché rappresentano una liberazione da un groviglio che non ha una fine: un cammino come continuo cominciamento, come percorso continuo di crescita. Si è in cammino, si cerca di sollevarsi dai grovigli in cui si resta avviluppati e con scelta coraggiosa spesso si spicca un balzo rischioso, come un’opera mostra, di una piccola donna, che si stacca dal groviglio improvvisamente; oppure si inizia una lenta salita su scale sospese. Il cammino è un atto sacro: “la sacralità per me non è verticale, ma il è il percorso che facciamo anche con il nostro pensiero … La sacralità è anche la comunicazione, l’empatia, l’ascoltarsi reciproco”.
Ci sono “mostrini” sospesi ovunque, con volti inquietanti e corpi di pesce, con braccia e gambe, che rappresentano ciò che la società spesso crea e che propone: “sono mostri che però possono anche diventare mostrini, possono anche non divorarci … Hanno un ventre aperto, perché vi può entrare nel loro interno anche qualcosa di buono … Ci possono persino abbracciare! Sta a noi essere responsabili”. La società contemporanea pone spesso alle future generazioni dei prodotti che possono però rappresentare veri pericoli sociali, divoranti del senso del tempo, come la tecnologia spesso fa. “Sta a noi essere coscienti e trasformare ciò che potrebbe essere un mostro fatale in un mostrino benevolo, che ci può anche afferrare”.
Teresa Cervo poi mostra personaggi in cartapesta che suonano parti del loro corpo: il naso, la testa e le corde vocali e che nascondono una storia avvincente e immaginaria, che lascia con il fiato sospeso. “Nel loro mondo la musica non è più ben accetta e così decidono di diventare essi stessi strumenti musicali, utilizzando parti del loro corpo. Suonano una musica così bella, che con il loro suono magicamente cambia il colore degli occhi di coloro che ascoltano.”
Storie di empatia, storie di fantasia, storie di cammini, di cominciamenti e di sogni: questa è la vera essenza di queste opere. “ Il mio sogno è pensare che i miei giorni, il mio tempo sia vissuto bene e vedere che la gente si riconosce nelle mie storie … Recuperare una dimensione temporale, il silenzio, la parola assorta, che tira fuori da quell’ avviluppo angosciante dello scorrere veloce del tempo”.
E, infine, Teresa Cervo mostra piccole sedie in fil di ferro con una minuscola scritta : “qui possono sedersi solo i sognatori”. Su quelle sedie tutti vorrebbero sedersi e in effetti una volta entrati in quell’atelier sembra davvero che quest’artista offra una seduta per il sogno del tempo sospeso.
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Teresa Cervo
Artista
Vico San Domenico Maggiore 2 – 80134 Naples, Italy